di Davide Patitucci | 21 Maggio 2014
L’uomo potrebbe rappresentare oggi per molte specie animali e vegetali ciò che un asteroide fu per i dinosauri 65 milioni di anni fa: una minaccia di estinzione di massa. La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla Terra dalla comparsa della vita pluricellulare.
Come ammonimento contro questo rischio, paventato da molti biologi e
naturalisti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire dal 2000
ha proclamato il 22 maggio, data in cui fu adottata nel 1992 la
Convenzione sulla diversità biologica, Giornata mondiale della biodiversità.
I primi profughi climatici potrebbero essere eschimesi. La scelta dell’Onu quest’anno è caduta sull’ecosistema delle isole, in particolar modo le più piccole, in cui vive circa un decimo della popolazione mondiale. Un habitat considerato tra i più vulnerabili ai mutamenti climatici, basti pensare alla fragilità delle barriere coralline. I pericoli maggiori per questi ecosistemi, secondo gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’organismo delle Nazioni Unite per lo studio del clima, sono rappresentati dall’innalzamento del livello degli oceani, stimato dall’Ipcc tra 0,18 e 0,59 metri entro la fine del secolo, e dalle tempeste sempre più frequenti e violente, che rischiano di creare profughi climatici. I primi potrebbero essere i 400 eschimesi che abitano la piccola isola di Kivalina, di fronte la costa ovest dell’Alaska, che secondo gli esperti potrebbe essere tra le prime a sparire entro il 2025.
Le isole sono un’importante cartina al tornasole della biodiversità. Lo sapeva bene Charles Darwin che, grazie anche alle osservazioni compiute su un habitat insulare, le Galapagos, riuscì a elaborare la sua teoria dell’evoluzione. E lo confermano le indagini della cosiddetta Lista rossa delle specie in pericolo, che proprio quest’anno compie 50 anni, in base alle quali il 90% degli uccelli e il 75% delle specie animali estinte a partire dal 17esimo secolo vivevano in habitat insulari. Vero e proprio “Barometro della vita”, secondo una definizione della rivista Science, la Lista, messa a punto dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), assegna a più di 70mila specie una categoria di rischio. Si va dalle specie estinte a quelle fuori pericolo, passando dagli organismi che ormai sopravvivono solo in cattività a quelli che, a vari livelli, sono minacciati di estinzione.
Biodiversità, 30mila specie perse ogni anno. Ma perché è così importante la biodiversità? Questo termine è usato comunemente per indicare l’insieme degli individui e delle specie che vivono in una determinata area. Definizione che, estesa all’intero Pianeta, porta a descrivere la biodiversità come “La varietà della vita sulla Terra a tutti i livelli”. Un concetto che può sembrare in apparenza generico e lontano. Ma che, espresso in termini di relazione degli organismi tra loro e con l’ambiente, come amano fare gli scienziati, riguarda da vicino una specie in particolare e il suo modo di vivere il rapporto con la natura, l’Homo sapiens. Specie che, a dispetto del nome, sta modificando sempre più gli equilibri esistenti tra gli ecosistemi, con seri rischi per l’ambiente. Il biologo di Harvard Edward Owen Wilson più di un decennio fa ha quantificato in 30mila specie l’anno la perdita di biodiversità terrestre, e sintetizzato il peso dell’uomo sulla diversità biologica coniando un curioso acronimo, “HIPPO”. Parola in cui la “H” sta per “Habitat loss”, cioè la perdita di ambiente naturale in favore di coltivazioni e insediamenti umani; la “I” per “Invasive species”, le specie aliene introdotte dall’uomo in ecosistemi diversi da quelli di origine, che proliferano in maniera incontrollata fino a sterminare quelle indigene; le due “P” per “Pollution”, l’inquinamento antropico e “Population”, a indicare la continua crescita della popolazione umana, giunta ormai a superare i sette miliardi di individui; infine la “O” che sta per “Overharvesting”, il crescente sequestro delle risorse ambientali fino al loro completo depauperamento. Pressioni ambientali cui va, inoltre, aggiunto il mutamento globale del clima. Ipcc, incremento aree urbane e perdita di suolo fertile. “Maggiore è il grado di biodiversità, più grande sarà la capacità degli ecosistemi di sopportare perturbazioni esterne, indotte ad esempio dai cambiamenti climatici”, affermano gli scienziati dell’Ipcc per sottolineare l’importanza della diversità biologica. “L’incremento e la diffusione delle aree urbane e delle relative infrastrutture – aggiungono gli esperti della Convenzione Onu sulla biodiversità – ha determinato un aumento dei trasporti e del consumo energetico, con la conseguente crescita delle emissioni di gas serra e inquinanti atmosferici. Inoltre – sottolineano gli studiosi di biodiversità – la trasformazione dei terreni da naturali, come le foreste, ad altre destinazioni d’uso, semi-naturali come le coltivazioni, o artificiali come le infrastrutture, non solo sta provocando la permanente, e in molti casi irreversibile, perdita di suolo fertile, ma ha anche altri effetti negativi, come l’alterazione degli equilibri idrogeologici”.
L’Italia perde 8 metri quadrati di terreno al secondo. L’Italia, proprio sul tema del dissesto idrogeologico, sta ancora perdendo terreno. Letteralmente. Secondo l’ultimo report dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale la crisi non sembra aver affatto frenato il consumo di suolo nel nostro Paese. “Il fenomeno è in aumento, al ritmo di 8 m2 al secondo. Negli ultimi tre anni – affermano gli esperti italiani – abbiamo divorato un’area di 720 km2, grande come cinque capoluoghi di regione, Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo, perdendo così la capacità di trattenere 270 milioni di tonnellate d’acqua. Il 7,3% del territorio è ormai da considerare perso. La cementificazione – si legge inoltre nel rapporto – ha comportato tra il 2009 e il 2012 l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, valore pari a 4 milioni di utilitarie in più, l’11% dei veicoli circolanti nel 2012”.
Eppure, il nostro Paese parte da una condizione di privilegio. “L’Italia – sottolineano gli esperti Onu sulla biodiversità – grazie alla sua varietà geografica che comprende regioni alpine, continentali e mediterranee, e alle sue coste che si estendono per 7400 km, è un Paese estremamente ricco in biodiversità, con il più elevato numero e la maggiore densità di specie animali e vegetali dell’Unione Europea. La stima – in base ai dati delle Nazioni Unite – è di 58mila specie animali, il 95% delle quali rappresentate da invertebrati, 6700 specie vegetali e 20mila fungine. Ogni anno, inoltre, sono almeno 20 le nuove specie classificate sul territorio nazionale, di cui una percentuale superiore al 10% è rappresentata da aree protette”.
Ma costa sta facendo il nostro Paese per mantenere questo primato europeo? Se in ambito economico e finanziario ha preso provvedimenti, spesso all’insegna di austerità e rigore, con la motivazione che erano richiesti dall’Europa, sulla diversità biologica, dopo aver ratificato nel 1994 la Convenzione Onu, l’Italia è in linea con gli organismi internazionali?Dopo la Convenzione Onu, carenze e mancanza di coordinamento. Nel 2010, in occasione dell’Anno internazionale della diversità biologica, il ministero dell’Ambiente ha messo a punto la “Strategia nazionale per la biodiversità” , un documento suddiviso in tre punti cardine: biodiversità ed ecosistemi, biodiversità e cambiamento climatico, biodiversità e politiche economiche, che devono trovare attuazione nel decennio 2011-2020. Nel 2015, anno di scadenza dei cosiddetti Obiettivi del millennio tra i quali c’è, al settimo punto, quello di assicurare la sostenibilità ambientale, ad esempio riducendo proprio la perdita di biodiversità – è in programma una verifica approfondita sulla validità dell’impostazione della strategia.
Ma un primo parziale bilancio esiste già. È rappresentato dalla prima analisi, tra quelle previste con cadenza biennale, dello stato di attuazione della strategia nazionale. Nelle conclusioni del rapporto, redatto dallo stesso ministero dell’Ambiente e riferito agli anni 2011-2012, emergono ancora molte ombre. Nella tabella delle quindici aree di lavoro in cui è stata suddivisa la strategia, la scala cromatica che evidenzia lo stato di attuazione degli interventi mostra solo un piccolo quadratino verde, come segno tangibile di un risultato positivo, in mezzo a tanti grigi. Nel report si parla, ad esempio, di “Carenze dovute ad un assetto nazionale e locale che spesso risente della mancanza di coordinamento nell’adempiere agli obblighi assunti” e di “Ritardi e scarsa incisività che spesso comportano l’apertura di procedure d’infrazione”. Si sottolinea, inoltre, che “Lo stato di crisi globale, comunitaria e nazionale, non facilita l’interesse verso i temi della conservazione della biodiversità, malgrado rappresentino una risorsa fondamentale su cui fare affidamento”.
Il paleontologo Eldredge: “La vita si è sempre ripresa dopo una estinzione”. Ma la Natura, a dispetto del disinteresse umano, potrebbe da sola trovare le giuste contromisure. “La vita ha capacità di recupero incredibili e si è sempre ripresa, anche se dopo lunghi intervalli di tempo, in seguito a spasmi di estinzione importanti – afferma Niles Eldredge, paleontologo dell’American museum of natural history di New York, in un’enciclopedia integrata della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione, dal titolo “La vita sulla Terra”. Ma questa ripresa è sempre avvenuta solo dopo la scomparsa di ciò che aveva provocato l’estinzione. E, poiché nel caso della sesta estinzione la causa siamo noi, l’Homo sapiens, questo significherebbe la nostra stessa scomparsa. A meno che – auspica lo studioso americano – non scegliamo di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ecosistema globale”.
I primi profughi climatici potrebbero essere eschimesi. La scelta dell’Onu quest’anno è caduta sull’ecosistema delle isole, in particolar modo le più piccole, in cui vive circa un decimo della popolazione mondiale. Un habitat considerato tra i più vulnerabili ai mutamenti climatici, basti pensare alla fragilità delle barriere coralline. I pericoli maggiori per questi ecosistemi, secondo gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’organismo delle Nazioni Unite per lo studio del clima, sono rappresentati dall’innalzamento del livello degli oceani, stimato dall’Ipcc tra 0,18 e 0,59 metri entro la fine del secolo, e dalle tempeste sempre più frequenti e violente, che rischiano di creare profughi climatici. I primi potrebbero essere i 400 eschimesi che abitano la piccola isola di Kivalina, di fronte la costa ovest dell’Alaska, che secondo gli esperti potrebbe essere tra le prime a sparire entro il 2025.
Le isole sono un’importante cartina al tornasole della biodiversità. Lo sapeva bene Charles Darwin che, grazie anche alle osservazioni compiute su un habitat insulare, le Galapagos, riuscì a elaborare la sua teoria dell’evoluzione. E lo confermano le indagini della cosiddetta Lista rossa delle specie in pericolo, che proprio quest’anno compie 50 anni, in base alle quali il 90% degli uccelli e il 75% delle specie animali estinte a partire dal 17esimo secolo vivevano in habitat insulari. Vero e proprio “Barometro della vita”, secondo una definizione della rivista Science, la Lista, messa a punto dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), assegna a più di 70mila specie una categoria di rischio. Si va dalle specie estinte a quelle fuori pericolo, passando dagli organismi che ormai sopravvivono solo in cattività a quelli che, a vari livelli, sono minacciati di estinzione.
Biodiversità, 30mila specie perse ogni anno. Ma perché è così importante la biodiversità? Questo termine è usato comunemente per indicare l’insieme degli individui e delle specie che vivono in una determinata area. Definizione che, estesa all’intero Pianeta, porta a descrivere la biodiversità come “La varietà della vita sulla Terra a tutti i livelli”. Un concetto che può sembrare in apparenza generico e lontano. Ma che, espresso in termini di relazione degli organismi tra loro e con l’ambiente, come amano fare gli scienziati, riguarda da vicino una specie in particolare e il suo modo di vivere il rapporto con la natura, l’Homo sapiens. Specie che, a dispetto del nome, sta modificando sempre più gli equilibri esistenti tra gli ecosistemi, con seri rischi per l’ambiente. Il biologo di Harvard Edward Owen Wilson più di un decennio fa ha quantificato in 30mila specie l’anno la perdita di biodiversità terrestre, e sintetizzato il peso dell’uomo sulla diversità biologica coniando un curioso acronimo, “HIPPO”. Parola in cui la “H” sta per “Habitat loss”, cioè la perdita di ambiente naturale in favore di coltivazioni e insediamenti umani; la “I” per “Invasive species”, le specie aliene introdotte dall’uomo in ecosistemi diversi da quelli di origine, che proliferano in maniera incontrollata fino a sterminare quelle indigene; le due “P” per “Pollution”, l’inquinamento antropico e “Population”, a indicare la continua crescita della popolazione umana, giunta ormai a superare i sette miliardi di individui; infine la “O” che sta per “Overharvesting”, il crescente sequestro delle risorse ambientali fino al loro completo depauperamento. Pressioni ambientali cui va, inoltre, aggiunto il mutamento globale del clima. Ipcc, incremento aree urbane e perdita di suolo fertile. “Maggiore è il grado di biodiversità, più grande sarà la capacità degli ecosistemi di sopportare perturbazioni esterne, indotte ad esempio dai cambiamenti climatici”, affermano gli scienziati dell’Ipcc per sottolineare l’importanza della diversità biologica. “L’incremento e la diffusione delle aree urbane e delle relative infrastrutture – aggiungono gli esperti della Convenzione Onu sulla biodiversità – ha determinato un aumento dei trasporti e del consumo energetico, con la conseguente crescita delle emissioni di gas serra e inquinanti atmosferici. Inoltre – sottolineano gli studiosi di biodiversità – la trasformazione dei terreni da naturali, come le foreste, ad altre destinazioni d’uso, semi-naturali come le coltivazioni, o artificiali come le infrastrutture, non solo sta provocando la permanente, e in molti casi irreversibile, perdita di suolo fertile, ma ha anche altri effetti negativi, come l’alterazione degli equilibri idrogeologici”.
L’Italia perde 8 metri quadrati di terreno al secondo. L’Italia, proprio sul tema del dissesto idrogeologico, sta ancora perdendo terreno. Letteralmente. Secondo l’ultimo report dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale la crisi non sembra aver affatto frenato il consumo di suolo nel nostro Paese. “Il fenomeno è in aumento, al ritmo di 8 m2 al secondo. Negli ultimi tre anni – affermano gli esperti italiani – abbiamo divorato un’area di 720 km2, grande come cinque capoluoghi di regione, Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo, perdendo così la capacità di trattenere 270 milioni di tonnellate d’acqua. Il 7,3% del territorio è ormai da considerare perso. La cementificazione – si legge inoltre nel rapporto – ha comportato tra il 2009 e il 2012 l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, valore pari a 4 milioni di utilitarie in più, l’11% dei veicoli circolanti nel 2012”.
Eppure, il nostro Paese parte da una condizione di privilegio. “L’Italia – sottolineano gli esperti Onu sulla biodiversità – grazie alla sua varietà geografica che comprende regioni alpine, continentali e mediterranee, e alle sue coste che si estendono per 7400 km, è un Paese estremamente ricco in biodiversità, con il più elevato numero e la maggiore densità di specie animali e vegetali dell’Unione Europea. La stima – in base ai dati delle Nazioni Unite – è di 58mila specie animali, il 95% delle quali rappresentate da invertebrati, 6700 specie vegetali e 20mila fungine. Ogni anno, inoltre, sono almeno 20 le nuove specie classificate sul territorio nazionale, di cui una percentuale superiore al 10% è rappresentata da aree protette”.
Ma costa sta facendo il nostro Paese per mantenere questo primato europeo? Se in ambito economico e finanziario ha preso provvedimenti, spesso all’insegna di austerità e rigore, con la motivazione che erano richiesti dall’Europa, sulla diversità biologica, dopo aver ratificato nel 1994 la Convenzione Onu, l’Italia è in linea con gli organismi internazionali?Dopo la Convenzione Onu, carenze e mancanza di coordinamento. Nel 2010, in occasione dell’Anno internazionale della diversità biologica, il ministero dell’Ambiente ha messo a punto la “Strategia nazionale per la biodiversità” , un documento suddiviso in tre punti cardine: biodiversità ed ecosistemi, biodiversità e cambiamento climatico, biodiversità e politiche economiche, che devono trovare attuazione nel decennio 2011-2020. Nel 2015, anno di scadenza dei cosiddetti Obiettivi del millennio tra i quali c’è, al settimo punto, quello di assicurare la sostenibilità ambientale, ad esempio riducendo proprio la perdita di biodiversità – è in programma una verifica approfondita sulla validità dell’impostazione della strategia.
Ma un primo parziale bilancio esiste già. È rappresentato dalla prima analisi, tra quelle previste con cadenza biennale, dello stato di attuazione della strategia nazionale. Nelle conclusioni del rapporto, redatto dallo stesso ministero dell’Ambiente e riferito agli anni 2011-2012, emergono ancora molte ombre. Nella tabella delle quindici aree di lavoro in cui è stata suddivisa la strategia, la scala cromatica che evidenzia lo stato di attuazione degli interventi mostra solo un piccolo quadratino verde, come segno tangibile di un risultato positivo, in mezzo a tanti grigi. Nel report si parla, ad esempio, di “Carenze dovute ad un assetto nazionale e locale che spesso risente della mancanza di coordinamento nell’adempiere agli obblighi assunti” e di “Ritardi e scarsa incisività che spesso comportano l’apertura di procedure d’infrazione”. Si sottolinea, inoltre, che “Lo stato di crisi globale, comunitaria e nazionale, non facilita l’interesse verso i temi della conservazione della biodiversità, malgrado rappresentino una risorsa fondamentale su cui fare affidamento”.
Il paleontologo Eldredge: “La vita si è sempre ripresa dopo una estinzione”. Ma la Natura, a dispetto del disinteresse umano, potrebbe da sola trovare le giuste contromisure. “La vita ha capacità di recupero incredibili e si è sempre ripresa, anche se dopo lunghi intervalli di tempo, in seguito a spasmi di estinzione importanti – afferma Niles Eldredge, paleontologo dell’American museum of natural history di New York, in un’enciclopedia integrata della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione, dal titolo “La vita sulla Terra”. Ma questa ripresa è sempre avvenuta solo dopo la scomparsa di ciò che aveva provocato l’estinzione. E, poiché nel caso della sesta estinzione la causa siamo noi, l’Homo sapiens, questo significherebbe la nostra stessa scomparsa. A meno che – auspica lo studioso americano – non scegliamo di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ecosistema globale”.
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