Allarme oceani, così in quarant’anni è scomparsa metà della popolazione marina
Il rapporto del World Wildlife Fund e della Zoogical Society di
Londra. A incidere anche le abitudini alimentari: dagli anni ’60 a oggi è
raddoppiata la quantità di pesce mangiato
L’allarme è stato lanciato del rapporto Living Blue Planet
Pubblicato il
18/09/2015
Ultima modifica il 18/09/2015 alle ore 13:31
Il WWF e la Zoogical Society hanno preso in esame 5.829 popolazioni di 1.234 specie, scoprendo che il loro numero si è mediamente dimezzato in soli quattro decenni. Alcune classi di Echinodermi sono sull’orlo dell’estinzione: il cetriolo di mare è già scomparso per il 94% alle Galapagos e per il 98% nel Mar Rosso. Le mangrovie e la posidonia oceanica, rifugio e asilo d’infanzia di molte specie, sono fortemente minacciate e i coralli spariranno completamente entro il 2050, privando le zone costiere di un habitat essenziale alla vita marina.
E’ incredibile, osserva il rapporto, la velocità con la quale l’uomo riesce a distruggere ciò che la Natura ha impiegato milioni di anni a costruire. Il consumo di pesce pro capite era di 9,9 chili l’anno nel 1960, ed è ora arrivato a quasi 20 chili. Molte specie scompariranno a causa di superflui capricci ai quali si potrebbe facilmente rinunciare. La popolazione di tonni si è ridotta di due terzi anche a causa della sushi-mania, dilagata dal Giappone in tutte le capitali europee e americane. I cetrioli di mare si sono praticamente estinti in quanto sono una ricercata prelibatezza in Asia orientale. Gli squali sono in pericolo perché grandi pescherecci li catturano a migliaia in acque profonde non per la loro carne, che viene ributtata in mare, ma solo per la pinna che servirà a preparare zuppe considerate simbolo di opulenza nelle feste e ai matrimoni cinesi.
Quello che l’uomo non divora lo sta poi distruggendo l’inquinamento e nello stomaco dei pesci oceanici si trovano abitualmente residui di plastica. L’anidride carbonica prodotta dai vulcani e dalle attività umane acidifica l’acqua, causando lo scioglimento del guscio calcareo dei microrganismi del plancton, il primo anello della catena alimentare la cui scomparsa si ripercuoterà sull’intero ecosistema. Secondo il rapporto, la drammatica riduzione della quantità di pesce presente nel mare costringerà all’emigrazione le popolazioni costiere che vivono di pesca e che non avranno più alcuna possibilità di sostentamento.
Che cosa si può fare dunque? Inutile illudersi che il mondo si metta d’accordo su una significativa riduzione delle sostanze inquinanti prima che il disastro sia compiuto. Ma forse, suggerisce il rapporto, possiamo diventare tutti più responsabili: i ristoranti dovrebbero proporre nei menù solo pesce dichiarato sostenibile da un organismo internazionale e i governi dovrebbero arginare la cattura indiscriminata, spiegando ai pescatori che il rispetto delle regole sul ripopolamento va anche a loro vantaggio. I consumatori dovrebbero a loro volta diventare più responsabili, farsi passare la voglia di sashimi e di tartare di tonno e acquistare solo pesce la cui specie non è in pericolo. Non si tratta di salvare la Terra, che in miliardi di anni ne ha viste ben di peggio: ad essere in serio pericolo è quel fragile equilibrio che consente agli esseri umani di continuare ad abitarla.
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