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giovedì 7 dicembre 2017

Perché smettere di mangiare carne?

Perché smettere di mangiare carne? Ce lo racconta Giulia Innocenzi

È veramente sicuro ciò che mangiamo? Cosa accade all’interno di un allevamento intensivo? In un'inchiesta sull'industria italiana della carne e dei formaggi, di cui si dà conto in Tritacarne (Rizzoli), la giornalista Giulia Innocenzi che ha lavorato, tra gli altri, con Michele Santoro ad Annozero Servizio Pubblico, segue animalisti, biologi, veterinari e allevatori per accendere i fari su un ambiente per molti versi sordido e ancora sconosciuto ai più, in cui gli animali sopravvivono a stento in spazi angusti, sporchi, senz'aria, malati e imbottiti di antibiotici che finiscono sulle nostre tavole. Un libro che sta vendendo molto e molto sta facendo discutere. Ne parliamo con l’autrice per i lettori di Sul Romanzo:
 
Proviamo a partire da una questione politica, perché il nodo di tutto potrebbe anche essere qui. Citando Martin Caparross, lei indica la carne come metafora perfetta della disuguaglianza. Di che tipo di disuguaglianza parliamo?
Mi riferisco proprio a quanto racconta il giornalista argentino Caparross, grande mangiatore di carne – visto che lui è argentino, è quasi un luogo comune –, ovvero che la carne è il simbolo della ricchezza. Dire: «Io che ho più risorse di te mi permetto di prendere molto più di te». Questo accade perché oggi più di un terzo delle coltivazioni nel mondo sono destinate agli animali. Significa che stiamo togliendo del cibo commestibile per gli umani: cereali, soia, eccetera, per darli agli animali. Un tempo questo non succedeva, perché gli animali pascolavano. Il sistema era efficiente, faccio solo l’esempio delle mucche: pascolando mangiavano l’erba e quindi convertivano un alimento non commestibile per noi in calorie, commestibili per l’uomo. Oggi che invece abbiamo rinchiuso gli animali in capannoni, abbiamo tagliato questo ciclo naturale molto efficiente e perciò dobbiamo togliere del cibo commestibile agli esseri umani per nutrire gli animali. Un altro esperto di allevamenti come Philip Lymbery afferma che il sistema degli allevamenti intensivi è il più grande spreco di cibo che c’è oggi al mondo.
 
Lei definisce gli allevamenti intensivi come fonte di inquinamento e causa di spreco alimentare. Ma allora come si spiega il loro successo?
Semplicemente perché si tratta di un sistema che procura maggiori quantità a minor costo, scaricando però i costi reali sulla collettività: mi riferisco all’inquinamento e alla spesa per la salute dell’uomo. Uno dei costi più grandi per la salute umana è l’antibiotico-resistenza. Oggi noi, avendo rinchiuso gli animali negli allevamenti, in condizioni igienico-sanitarie molto precarie, stiamo crescendo degli animali malati. Questi animali vanno perciò imbottiti di antibiotici. In Italia il 70% degli antibiotici in circolazione viene destinato agli animali; prendono più antibiotici degli uomini. Queste somministrazioni massive stanno annientando gli effetti degli antibiotici; l’utilizzo sconsiderato crea nuovi ceppi batterici che mutano e divengono resistenti agli antibiotici. Il costo sanitario è gravissimo: si è stimato che nel 2050 ci saranno dieci milioni di morti l’anno per antibiotico-resistenza.

Secondo l’European Food Safety Authority, il benessere degli animali è strettamente connesso alla sicurezza della catena alimentare. Perché secondo lei questo messaggio è poco applicato dagli allevatori e sembra sfuggire ai consumatori?
Gli allevatori dovrebbero rinunciare in toto all’allevamento intensivo, che però permette loro di produrre molto di più utilizzando poca manodopera. Il sistema è ipertecnologizzato, perciò c’è un ulteriore taglio di costi. Ci vorrebbe una pressione importante sia dal basso (i consumatori) sia dall’alto (la politica) per poter superare questo sistema degli allevamenti intensivi. Ma come fanno i consumatori a superare questo problema se non sono nemmeno a conoscenza che quello che hanno sul piatto proviene dagli allevamenti intensivi? Oggi non c’è, per legge, alcun obbligo di scrivere sull’etichetta qual è il metodo dell’allevamento. Quindi tu hai davanti dei prodotti e non sai se quella carne o quel formaggio viene da un animale che ha pascolato all’aperto o da uno che è rimasto rinchiuso in un capannone, ha mangiato OGM ed è cresciuto molto in fretta per arrivare al macello. È solo grazie alla trasparenza che noi possiamo far partire un cambiamento.
 
Uno dei capitoli più duri di Tritacarne è quello dedicato alle scrofe, trasformate in vere e proprie macchine per la riproduzione e l’allattamento, con la produzione di scrofe con un numero più alto di capezzoli. Al di là di quello che ha scritto nel libro, ci può raccontare cosa ha provato quando si è trovata dinanzi a quella realtà?
È stato scioccante. Purtroppo le scrofe, oggi, passano gran parte della loro vita chiuse in una gabbia. Noi dobbiamo pensare che i maiali sono animali molto intelligenti e curiosi che in natura grufolerebbero tutto il tempo, invece queste scrofe devono vivere in gabbie grandi più o meno quanto il loro corpo. Non possono alzarsi e scendere, non possono mai girarsi dall’altra parte, non possono mai camminare. Questo perché gli allevatori ritengono più efficiente tenerle chiuse in gabbia quando sono in gestazione e quando devono allattare i loro piccoli. Se non bastasse questo, i laboratori di genetica stanno lavorando per ottenere scrofe sempre più efficienti, ovvero sempre più prolifiche, che facciano sempre più piccoli. Per fare più suinetti devi anche poterli allattare; i laboratori di genetica stanno selezionando le scrofe con più capezzoli. La maggior parte delle scrofe ha 15 capezzoli ma esiste già una piccola percentuale con 16 capezzoli e si lavora per ottenere scrofe con 17 e pure 18 capezzoli, chissà. L’animale è sempre quello, eppure ogni anno partorisce sempre più suinetti. Fin dove ci vogliamo spingere? Quanto vogliamo spompare questi animali?
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Leggendo le descrizioni che fa di alcuni “processi” dell’allevamento, sembra evidente la trasformazione dell’animale da essere vivente in oggetto e dell’allevamento in processo industriale. Fino a che punto, in questi casi, si corre il rischio di trasformare anche noi stessi, che consumiamo carne, in oggetti della catena produttiva?
Lo siamo già, in sostanza. La produzione dell’allevamento intensivo, che abbiamo importato dagli Stati Uniti negli anni ’50, sta rendendo il nostro cibo di fatto tutto uguale. Noi abbiamo spazzato via le razze autoctone che c’erano in Italia, tutte le razze di maiali che c’erano, le più diverse. C’era la razza bruna, la mora romagnola, il maiale Cavour, si potrebbe andare avanti all’infinito. Non ci sono più o ci sono ancora pochi esemplari, grazie ad allevatori illuminati. Tutti questi maiali li abbiamo sostituiti col celebre maiale “rosa”, che si chiama large white, importato dalla Gran Bretagna perché è il maiale che risponde meglio ai ritmi dell’allevamento intensivo e quello che cresce più in fretta. Rispetto a questa logica potrei citarti tutti i tipi di animali che noi alleviamo. Tutto questo, però, ha standardizzato il gusto e i metodi di allevamento. Noi siamo il Made in Italy, siamo famosi nel mondo per la nostra cucina e i nostri sapori, eppure ci siamo totalmente venduti a un sistema di produzione di tipo americano. Io dico: fermiamoci finché siamo in tempo e cerchiamo di recuperare le tradizioni che ci hanno resi grandi nel mondo.
Un consumo più ragionevole e consapevole di carne può essere la soluzione, oppure questa è rappresentata per forza di cose dal diventare vegetariani o vegani?
Sicuramente un punto di partenza. Oggi non siamo portati a pensare a quel che mangiamo; se associassimo i prodotti che abbiamo nel piatto a quella ch’è stata la vita dell’animale che ci ha dato quel prodotto, come ha vissuto quell’animale, se è vissuto in maniera dignitosa, già questo sarebbe un primo passo per un consumo migliore. La carne di un animale che sta male è una carne insalubre. Oltretutto noi mangiamo troppa carne. In Italia abbiamo 92 Kg di carne a testa per anno. Dobbiamo perciò tornare a mangiare molta meno carne e più di qualità. Sarebbe già un grande passo avanti.
 

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Il rispetto per gli animali è conciliabile con il loro allevamento e con il consumo di carne?
Bisogna partire dal chiedere la chiusura degli allevamenti intensivi e adottare un modello estensivo, con animali cresciuti all’aria aperta, che possano mangiare cibi naturali, nel rispetto della loro dignità, come vivrebbero in natura. Ogni allevamento ha però i suoi aspetti, per così dire, “contro natura”, come la separazione della vacca dal vitello, oppure l’uccisione prematura dei maschi. Questi aspetti, purtroppo, ci sono sempre. Per chi non riesce ad accettare queste cose l’unica soluzione è – ahimè – abbandonare il consumo di carne, nonché di formaggi. Già un passo avanti sarebbe una maggiore consapevolezza del consumatore e la richiesta della chiusura degli allevamenti intensivi, dai quali provengono la maggior parte delle carni e dei formaggi in commercio.






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