Il dibattito sul consumo di prodotti animali e sulle diete vegetariane è stato talmente esasperato che, in generale, i reali rischi legati all’uso ed abuso di carne si sono persi di vista, dissolti in dibattiti televisivi e accese prese di posizione che a volte cadono nel ridicolo. Uno di questi rischi, che invece dovremmo tenere ben presente, è la questione dell’impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. I medicinali vengono somministrati per sopperire alle condizioni igieniche generalmente malsane degli allevamenti intensivi, ottimizzando così la produzione e contribuendo a mantenere basso il prezzo dei prodotti animali.
In somma sintesi: ogni anno vengono somministrati agli animali d’allevamento più del 50% degli antibiotici prodotti su scala globale. Negli USA, inventori dell’allevamento intensivo, la percentuale tocca l’80%. Due terzi di questi medicinali sono gli stessi che vengono applicati nelle cure per l’uomo. Risultato: mangiando (troppa) carne e derivati, si assumono antibiotici senza averne bisogno. I batteri, di loro natura, si adattano e sviluppano la resistenza agli antibiotici. La conseguenza è che sempre più terapie risultano inefficaci e sempre più persone muoiono per cause legate alla resistenza ai farmaci. Non stiamo parlando di propaganda vegan-estremista: 700 mila persone, ogni anno, perdono la vita per la resistenza agli antibiotici, di cui 25 mila in Europa. Le stime per il 2050 parlano di 10 milioni di morti all’anno, con spese mediche che si misureranno nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari (il collasso dei sistemi sanitari sarebbe un altro enorme, inquietante argomento di cui bisognerebbe parlare di più).
La propensione dei batteri a resistere ai farmaci è considerata “la più grande minaccia alla medicina moderna” da parte dell’ONU.
E l’osannata carne Made in Italy? Non è poi migliore delle altre, se osserviamo i dati che collocano l’Italia al terzo posto in Europa per il consumo di antibiotici in ambito zootecnico, dopo Spagna e Cipro. Prendiamo l’esempio del pollo. Negli allevamenti italiani, anche quelli “a terra”, ci sono circa 17 polli per metro quadro. Moltiplicati per la superficie di un allevamento intensivo fanno migliaia di animali stipati assieme. Se uno si ammala in queste condizioni, bisogna curarli tutti; quindi riempirli di antibiotici. E i polli italiani si ammalano non meno di quelli degli altri Paesi: quasi il 13% risulta positivo alla salmonella, solo per citare il batterio più popolare nell’immaginario comune. Il 71% degli antibiotici venduti in Italia sono destinati all’allevamento, una percentuale non troppo distante da quella statunitense.
Ora, non è che si voglia fare terrorismo psicologico o generare isterismo. Limitiamoci a prendere atto dei dati scientifici. Decidere cosa mangiare e quanto mangiarne non è una questione di ideologia, slogan ed estremismi onnivori e vegani da sbandierare nei salotti televisivi. Le scelte alimentari dovrebbero avvenire su un equilibrio di informazione e di buon senso, che sono due elementi che si maturano col tempo. Solo, cerchiamo di non impiegarne troppo.
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